Omelia del Vescovo in occasione della Messa Crismale (Giovedì Santo 2017)

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Ariano Irpino

Basilica cattedrale, 13 aprile 2017

Cari sacerdoti, religiosi, diaconi, seminaristi, 

amati figli nel Signore, 

è una grande gioia ritrovarci alle soglie del Triduo Pasquale intorno all’altare del Signore.  È una grazia che ci introduce alla celebrazione del Mistero cui tutta la storia tende. 

Esso rinsalda il nostro vincolo di comunione, nella famiglia presbiterale della nostra amata Chiesa particolare. 

Cari presbiteri, il nostro è un incontro familiare; vi sono molto grato per il vostro prezioso ministero nelle nostre comunità!

Vi porto quotidianamente nella mia preghiera al Signore. Sperimento  la bellezza della vostra amicizia, e con voi rendo grazie a Dio per i frutti del ministero.

Quest’anno celebriamo anche il 25mo di sacerdozio di Don Antonio Albore e l’ordinazione presbiterale il 4 agosto del diacono Antonio Mele. 

Preghiamo per le vocazioni, per le famiglie. Accompagniamo con sollecitudine pastorale i seminaristi, i novelli presbiteri immessi nel ministero e sosteniamo amorevolmente gli anziani.

E’ riecheggiato oggi nella liturgia – come nella sinagoga di Nazareth –  il testo di Luca che  rinverdisce il nostro comune impegno:  «Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione…” (Luca 4,16 -21).

Ogni anno la Messa del Crisma ci fa entrare in quel “sì” della chiamata del Signore, a essere da Lui inviati, come quando abbiamo accolto liberamente e con generosità di seguirlo nel giorno della nostra ordinazione sacerdotale.

E’ un’occasione per chiederci – con la freschezza della prima volta – a che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è essere sacerdoti di Cristo in questo nostro tempo?

Oggi entrando nel Sacro Triduo, nel silenzio che la liturgia ci impone, s’interrompe anche il suono delle campane. È il segno che tutta la nostra attenzione è rivolta a Cristo, per parlare solo di Lui. È l’ora di vivere il mistero di Cristo, immergendoci in Lui.

Il Signore ha voluto che l’immensità del suo Amore rimanesse impressa nella parte più profonda del cuore dei credenti, ed è per questa ragione prima di passare da questo mondo al Padre nella Sua Pasqua, con i suoi discepoli hai istituito il Sacramento della Sua divina presenza consegnandolo nelle mani della Chiesa, nelle nostre povere e umili mani.

Ed è in questo mistero che contempliamo, che voglio condividere con voi alcuni spunti di meditazione sulla pagina del Vangelo che ci parla del rinnegamento di Pietro. 

Al di là di ogni altra  considerazione, nel triplice rinnegamento dell’Apostolo vi è una gradualità eloquente, che parla al cuore.

Il primo rinnegamento di Pietro riguarda direttamente Gesù: «Anche tu eri con Gesù», gli si dice; ma lui risponde: «Non capisco cosa dici». 

La tragica storia continua, ed il secondo rinnegamento, questa volta, riguarda la compagnia di Gesù, il gruppo dei dodici : «Costui è uno di loro», dice una serva, ma Pietro «di nuovo negava» – ( Vangelo di Marco). 

E, infine, l’ultimo rinnegamento riguarda Pietro stesso«Tu sei uno di loro, un Galileo»; ma Pietro protesta, quasi a voler negare la sua identità e a voler convincere i presenti di non essere lui quel Galileo che seguiva Gesù. (cfr. Mc 14, 66-72). 

Pietro consuma così la sua tragedia: egli comincia con il negare la sua appartenenza al Maestro; da qui ne deriva la rottura della sua appartenenza alla “compagnia di Gesù”. 

Ed in verità, Pietro si ritrova soprattutto a negare la sua appartenenza a se stesso e nel suo rinnegamento si annulla. 

Anche noi siamo chiamati a riflettere su come viviamo questa nostra triplice appartenenza. 

Sappiamo che Cristo vive; che la Chiesa vive; e ciascuno di noi dovrebbe chiedersi: e io, e  noi  come viviamo nel ministero?

L’appartenenza a Cristo è appartenenza al Cristo vivo, essa implica la responsabilità del gregge che il Signore ci ha affidato.

Quindi, la nostra relazione con la comunità ha il carattere della paternità, è relazione sponsale ma celibataria, mettendoci così al riparo da ogni possesso.

 La liturgia, che è un compito centrale della nostra vita, ci dice che proprio nello spazio della preghiera apprendiamo, alla scuola di Cristo, alimentati dalla sua Parola, l’arte per farlo conoscere a coloro ai quali siamo inviati.

Dobbiamo, dunque, parlare con il cuore, mantenerlo non solo ardente, ma illuminato dall’integrità della Rivelazione, dal cammino che la Parola di Dio ha percorso nel cuore della Chiesa e del nostro popolo … L’identità cristiana, è quell’abbraccio battesimale che il Padre, ci fa anelare … l’abbraccio del Padre misericordioso … dobbiamo far sì che il nostro popolo si senta come in mezzo tra questi due abbracci, è questo il compito difficile ma bello di chi predica il Vangelo. (cf Evangelii Gaudium,144) .

 Il Cristo vivo è presente nelle membra doloranti della Chiesa: nei poveri, negli ammalati, nei sofferenti, negli abbandonati. Cristo fattosi povero, è sempre vicino ai poveri e agli esclusi… (Evangelii Gaudium 186)

  Quest’appartenenza, quale legame vitale, non è soltanto con il Corpo Mistico ma anche con quella che Sant’Ignazio chiama “la Santa Madre Chiesa gerarchica”.  

Allora, chiediamoci: come viviamo questo legame, come viviamo la fraternità sacerdotale? 

È un punto di riflessione nel giorno in cui la Chiesa ci chiede di rinnovare le promesse della nostra ordinazione sacerdotale, di allargare le nostre mani per far fluire l’olio crismale quale benedizione sulla nostra gente. 

D’altronde ad ogni battezzato, è richiesto di vivere questa comunione con la Santa Chiesa gerarchica come spiega Sant’Ignazio  negli Esercizi spirituali

Cari amici, dobbiamo dunque essere vigilanti affinché, nel popolo di Dio, sia custodito questo senso della Chiesa!

Paolo VI, già da Arcivescovo di Milano, metteva in guardia: «Questi spiritualismi irrequieti e sottili e aristocratici, quante volte danno l’illusione di un fervore e di un contenuto spirituale serio, ma, remoti come sono dalla legge ecclesiastica, dall’obbedienza alla gerarchia, dal senso della Chiesa, non so se daranno più bene che male, o se lasceranno traccia d’inquietudine spirituale, ma non di certezza cristiana e di aderenza vera al messaggio di Cristo» (G.B. Montini, Discorsi su la Madonna e su i Santi, Milano, 1965). 

È di primaria importanza il passaggio dell’appartenenza a noi stessi nella verifica costante con il padre spirituale, tanto più da intensificare nelle difficoltà del ministero. 

Torniamo alla vicenda di Pietro che, non è in molto dissimile da quella Giuda. Entrambi avevano progetti diversi da quelli di Gesù. Ma, vi è un’abissale differenza tra i due. Giuda covava l’astio dentro di sé, senza parlarne con gli apostoli o con Gesù: agiva di nascosto, di notte. Al contrario, Pietro manifestava il suo dissenso anche a Gesù. 

Ecco la sostanziale differenza: sia pur con progetti opposti Giuda si tiene tutto per sé; Pietro, invece, ha il coraggio di parlare. E questa differenza segna anche l’esito delle due vicende parallele. Giuda rimane intrappolato nella sua solitudine, che lo porta alla disperazione; Pietro, pur dopo una fragorosa caduta, è risollevato dallo sguardo del Maestro. 

Restiamo, dunque, con costanza  davanti a Gesù nella preghiera, per servirlo nei fratelli che ci ha affidato, chiediamo al Signore il dono di poter  sempre con gioia rinnovare il nostro “Sì”.

Ci aiuti la Vergine Maria, Madre della Chiesa, Regina degli Apostoli a vivere quest’appartenenza, che è triplice fedeltà: a Cristo, alla Chiesa, a noi stessi.

Questa è la strada della nostra vocazione, questa è la strada della nostra santificazione.

Amen!

+ Sergio

Diocesi <br>Ariano Irpino - Lacedonia

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