Ariano Irpino – Chiesa Cattedrale, 13 novembre 2016
Carissimi fratelli e sorelle,
ci ritroviamo per celebrare l’Eucaristia. E’ questo il luogo dove ricercare la nostra unità di Chiesa che cammina insieme. È questo stare insieme – Vescovo, presbiteri, laici, diaconi e religiosi – che ci edifica come civitas firma, città stabile, sicura. Per rimanere saldi nel Signore, in questa certezza che Egli non ci abbandona, camminare nella speranza, nonostante le difficoltà, chiamati a lavorare per mostrare Gesù. In questa prospettiva vogliamo situare l’impegno che scaturisce da questo tempo in cui abbiamo vissuto il Giubileo Straordinario della Misericordia, che oggi si conclude in Diocesi con la chiusura della Porta Santa.
L’Anno Santo ci ha sollecitati a tenere fisso lo sguardo verso il compimento del Regno di Dio e a costruire il futuro su questa terra, lavorando per evangelizzare il presente, così da farne un tempo di salvezza per tutti.
Fratelli, vivere nella Chiesa è sperimentare questa comunione d’amore. Il cristiano non resta chiuso in tutte le difficoltà che avvertiamo anche nei nostri territori ma vivendo nel mondo è proteso verso il Cielo.
L’apostolo Paolo scriveva ai Tessalonicesi: «noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi».
L’impegno del lavoro apostolico esige, quindi, che ogni attività non sia una fuga ma un camminare insieme verso il fine.
Condivido con voi alcuni interrogativi del cardinale Carlo M. Martini che diceva – avrei chiesto a Dio da Pastore – perchè permetti che esista un divario tra molti giovani… perchè permetti che molti giovani diventino indifferenti al punto a volte di perdere la gioia della vita? Perchè non ci rendi più forte nell’amore, più coraggiosi nell’affrontare i problemi di oggi? Sono domande, cari sacerdoti, che chiedono a tutti noi di essere pastoralmente coerenti.
Abbiamo ascoltato il profeta Malachia: «Sta per venire il giorno rovente come un forno»; il giorno in cui – completa Gesù – «non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». È un annuncio che non può lasciarci indifferenti. La Chiesa come una madre vuole fermare la nostra riflessione su un punto che è tra i più essenziali: su le realtà che sono « ultime».
Va detto – però – che noi da cristiani siamo chiamati a vivere nel mondo in una terra che ci è affidata per essere custodita non violata, tesi a vivere una fraternità che va costruita oltre le mura del Tempio, un’aspirazione che a volte da noi stessi contradddiciamo.
Vi esorto invece a cercare i segni del Regno nei luoghi della vita: famiglia, presbiterio, parrocchie, comunità sociali…etc, adottando lo stile di Gesù, lo stile del servire.
Sostiamo a riflettere sulla nostra natura limitata, in un certo modo provvisoria. E non perchè la Chiesa voglia constingerci ad una riflessione che in fondo ci spaventa. Piuttosto: se la morte non è la fine, quanto invece lo svelarsi definitivo del nostro compimento in Dio, allora meditare sul nostro fine è utile per non smarrire l’orientamento.
Come diceva il teologo Rudolf Bultmann essere Cristiano non significa altro che «esistere escatologicamente», il che null’altro vuol dire che appropriarsi con pienezza del proprio destino: che è quello di un’eterna unione con Dio. É necessario oggi che noi rivendichiamo questo nostro essere tra il già e il non ancora, lasciando da parte il timore della meditazione sulle «cose ultime»: la morte, il giudizio, l’inferno, il paradiso. Badate bene: se non ci fossero queste cose – anche il nostro stare qui stasera – sarebbe per dirla con san Giuseppe di Copertino: una recita in maschera.
La vita nella sua brevità che esige ad essere distaccati dalle passioni che travolgono e falsano i nostri rapporti, dal possedere e dall’escludere.
E’ dunque, è un esercizio di paternità che mi spinge, commentando la Parola di Dio a pensare con voi all’eternità. Evidentemente, di quel momento non sappiamo nulla, ma vi entreremo con i nostri limiti e dall’altra parte ci sarà Dio con la Sua Misericordia. Davanti a Dio, saremo con il nostro vuoto. Ma, la buona notizia, il «Vangelo della Grazia» ci dice che Dio desidera riempire quel vuoto.
Dinanzi al Volto Misericordioso, noi possiamo fare più di quanto a Mosè non fu concesso. A Mosè, infatti, il Signore spiegò: «Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33, 23); noi, invece, staremo faccia a faccia dinanzi al Padre. Così, questo amore realmente ci consumerà con la sua Grazia.
Di questa Misericordia abbiamo fatto esperienza in questo Anno Santo straordinario.
Ringraziamo il Signore per tutti i doni ricevuti, e affidiamo alle sue cure in modo particolare la Chiesa universale, Papa Francesco, cui siamo grati per l’intuizione di quest’anno giubilare straordinario.
Ci farà bene non “archiviare”, ma continuare a tornare alle parole che il Papa ci ha abbondantemente donato. Sono molte, e lascio a voi il compito di custodirle. Da parte mia, vi confido che porto nel cuore due particolari momenti: il Giubileo dei Giovani, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia, e il Giubileo dei sacerdoti, in occasione della Solennità del Sacro Cuore. Proprio in una delle catechesi ai sacerdoti, il Papa spiega con parole che ci farà bene tenere a mente: «Il ricettacolo della Misericordia è il nostro peccato» (Papa Francesco, Meditazione, 2 giugno 2016).
Ma cos’è il “ricettacolo”? Il “ricettacolo” è uno spazio per ricevere. Allora, il nostro peccato è lo spazio naturalmente predisposto per ricevere la Misericordia di Dio.
Vedete se non ci fosse il nostro peccato, ci basterebbe la Giustizia: se fossimo tutti santi, basterebbe la giustizia a salvarci. Ma Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2, 4) e deve necessariamente ricorrere alla Misericordia. È come se il nostro peccato costringesse Dio a rivelarsi come Misericordia. Capiamo, dunque, che allora non c’è alcun timore nel pensare alle «cose ultime».
«Sta per venire il giorno rovente come un forno», ma non temete, perchè «per voi … sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia»; «Verranno giorni in cui non sarà lasciata pietra su pietra», ma non temete, perchè «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto».
Saremo davanti a Dio solo coni nostri limiti.
Scriveva don Divo Barsotti: «Vorrei alla mia morte avere il sentimento del più grande peccatore che non ha nulla da portarti tranne la tua misericordia» (D. Barsotti, La lotta con l’angelo, 116). Facciamo nostra questa preghiera, e capiremo che in fondo non abbiamo nulla da temere, ma piuttosto tutto da sperare. E riprendiamo il cammino, rinfrancati dalla Misericordia che ci è stata donata. Avevamo intrapreso questo percorso giubilare con il proposito di lasciare al Signore Gesù il tempo di guardarci e di amarci, di riempirci del suo sguardo, come al giovane del Vangelo: «Lo guardò dentro e lo amò» (Mc 10, 21) – come suggerivo nella lettera pastorale. Egli l’uomo nuovo ci chiede di conformarci a Lui che ha amato umanamente il povero focolare, le strade grigie, dorate dagli scrosci di pioggia, i villaggi, le piccole case, la pace … ha amato tutto ciò umanamente come mai nessuno ci ha amati. (Cfr. G. Bernanos)
E ora contempliamo il suo sguardo su di noi, che scava dentro e ci riempie con i suoi occhi che ci hanno innamorato e che chiede di metterci in cammino.
Lasciamo che ci prenda per mano e ci accompagni – «La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2, 16): è questa Sua parola che, sola, può darci realmente vita.
Amen.
XSergio