Omelia del Vescovo, S.E. Mons. Sergio Melillo, in occasione dell’Ordinazione Presbiterale del Diacono Antonio Mele

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Ariano Irpino – Basilica Cattedrale

 4 agosto 2017

•memoria di San Giovanni Maria Vianney•

Amati sacerdoti,

caro don Armando del Seminario di Posillipo

Caro don Gennaro rettore del Seminario di Nola

cari diaconi, seminaristi, religiosi e religiose;

stimate autorità civili, sindaci di Rocchetta s. Antonio e di Vallata;

carissimi papà Alfonso e mamma Antonietta, caro Vincenzo, nonni e familiari di Antonio,

figli e figlie nel Signore;

carissimo  Antonio!

Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo. (1Cor 1,3)

        Gesù: «Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!». 

         Questa è la ragione del nostro incontro, di una celebrazione che parla al cuore, al tuo giovane cuore caro Antonio, al cuore di ciascuno di noi…  e  – sono certo – che parla al cuore di voi giovani così numerosi questa sera nella nostra Basilica  Cattedrale!

         Il Signore ci guarda e ci dice: coraggio … seguimi!

         Il Santo Curato d’Ars – nella cui memoria liturgica siamo convenuti intorno all’altare del Signore per ordinare un nuovo presbitero – ci ricorda che «Il prete non lo capiremo bene che in cielo. Se lo capissimo sulla terra, moriremmo non di spavento, ma di amore». È proprio così!

         Caro Antonio, in questo momento ritorni ai primi presentimenti della tua vocazione, alla prima chiamata dell’Amore: avrai in questi giorni ricordato le emozioni che ti agitavano, i pensieri che ti occupavano in quei momenti.

         È bene che anche ciascuno di noi, cari sacerdoti, torni spesso a quei primi presentimenti: il Signore continua sempre a parlare al cuore!

         Ma, che cosa capivamo?  Che cosa sentivamo?

         Avvertivamo solo il senso forte di un’amore che chiama, che avvolge, che ci voleva e vuole tutti per  sè.

         Forse i tuoi coetanei, non ti avranno subito capito: è normale che sia così. In fondo, non capiamo mai  per davvero cosa sia  il sacerdozio, e forse è bene che sia così: se capissimo realmente il mistero della condiscenza di Dio resteremo come “immobili” in una contemplazione d’Amore.

         Oggi tu sarai  configurato a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, sarai consacrato come sacerdote del Nuovo Testamento, e a questo titolo, che ti unisce nel sacerdozio al  Vescovo, sarai annunciatore del Vangelo, Pastore del Popolo di Dio, e presiederai le azioni di culto, specialmente la celebrazione del sacrificio del Signore.[1]

          In questa prospettiva ti è chiesta l’obbedienza al Vescovo ed il cuore indiviso nel celibato.

         Oggi entri nel nostro presbiterio che ti accoglie e deve accompagnare fraternamente i tuoi passi…

          Cari amici, vi confesso che mentre mi preparavo alla celebrazione   mi risuonavano nella mente alcune delle ultime parole del Beato Antonio Rosmini rivolta all’amico di una vita: Alessandro Manzoni, che gli chiedeva

cosa fare dopo la sua dipartita, il sacerdote [2]  rispose: «Tacere, adorare, godere».

         È questo il programma di vita per te, per ogni sacerdote, per me, per ogni credente.

         Tacere, anzitutto. Non è  silenziarsi, isolandosi o sfuggendo quasi con un prudente tatticismo politico.   È, invece, apprendere quest’arte alla scuola di Maria «che custodiva tutte queste cose nel suo cuore».

         Questo silenzio abbia due ragioni: una soprannaturale, ed una comune. La ragione soprannaturale è che solo il silenzio ci apre ad un’autentica vita interiore: quanto più la Parola di Dio  abiterà la nostra vita, tanto più la nostra attitudine prenderà le forme dell’ascolto e per ascoltare, bisogna tacere. Non è da trascurare mai lo spazio d’intimità della preghiera per in un attivismo che apparentemente ci riempe il cuore!

          E poi una ragione più comune: se riflettessimo sulla potenza della parola ne comprenderemmo il carattere prezioso, usandola con parsimonia.

         La parola edifica: stiamo attenti a non impiegarla per demolire. La parola solleva: stiamo attenti a non abbattere. La parola impreziosisce: non usiamola per svilire. La parola cura, guarisce: non impieghiamola per ferire. La parola  apre al dialogo: non usiamola per rompere relazioni.  

         La nostra parola sacerdotale – per peculiare dono di Dio – santifica:  e questo va sempre ricordato.

        «Figlio dell’uomo, – dice Ezechiele – ti ho posto per sentinella alla casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia». (Ez.  3,16 – 17).

         La parola dei sacerdoti è chiara ed è fatta per edificare.

         La ragione della nostra vita sacerdotale  sta nella consegna del Signore:«Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità».

         Dobbiamo, però, aver consapevolezza di essere dei guaritori che hanno anche loro delle ferite!  Insomma, bisogna che il nostro “parlare” per evangelizzare, per comunicare stili di vita, trovi in noi lo sforzo di essere credibili….

         La metodologia sta proprio nella preghiera, nella vita di Grazia….  Una posologia, una terapia, che non deve mai mancare al nostro quotidiano!

         Adorare, poi. Diceva il Santo Curato d’Ars:«La preghiera nient’altro è che l’unione con Dio. Quando qualcuno ha il cuore puro e unito a Dio, è preso da una certa soavità e dolcezza che inebria, è purificato da una luce che si diffonde attorno a lui misteriosamente. In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, che nessuno può più separare».

         Il sacerdozio va vissuto come dono d’amore da restituire quale culto a Dio vissuto nella fraternità sincera.

         Nel Levitico il Signore stesso  pretende un culto, che è offerta a Dio, per le mani del sacerdote.

         Sappiamo, però, che i sacrifici dell’Antico Testamento sono soppiantati dall’unico, definitivo ed efficace sacrificio di Cristo e Dio è da adorare primariamente in Spirito e Verità.

         L’Eucarestia che è il sacrificio totale si rinnova così per le mani del sacerdote – e così sarà anche per te caro Antonio.

         Ecco perchè il presbitero, prima di altri, è tenuto ad adorare, perchè è nelle sue mani che si compie il mistero.

         Quante volte, dopo la consacrazione, resterai attonito, stupito, a guardarti le mani, chiedendoti come sia possibile che proprio lì si sia fatto di nuovo presente il Figlio di Dio… Fa’ sì che questo stupore si prolunghi per tutta la tua vita e nulla di questa vita marginalizzi il desiderio di Dio di farsi pane per i poveri tra le tue mani.

         Sulle tue mani verserò il Sacro Crisma che ti consacra per questa missione!

         Canta sempre con gioia nella tua vita –  con la stesso entuasiasmo di oggi -: Verrò all’altare di Dio che allieta la mia giovinezza!

         Ama la Chiesa e le persone che attraverso di te vorranno incontrare Gesù!

         «A me sinceramente la Chiesa è apparsa come la realtà dove è radunata più verità, più giustizia, più bellezza […]  – scriveva il card. Biffi[3] – I “vuoti di bellezza” ci sono solo dove la Chiesa assomiglia non a se stessa, ma al mondo».

         Questo vale per la vocazione di tutti: i “vuoti di bellezza” ci sono laddove il battezzato non somiglia a quello che è – un figlio di Dio; per un sacerdote, i “vuoti di bellezza” ci sono laddove egli somiglia a chiunque altro, e non a quello che è realmente: un alter Christus, ipse Christus, un altro Cristo, lo stesso Cristo.

         Fratelli, che mistero insondabile! anche la tua emozione è come il dono delle lacrime, il collirio che irriga della Grazia non solo gli occhi,  ma il tuo giovane cuore.

         Infine, il terzo verbo: godereE godere di cosa? Godere di sapersi amati nonostante il peccato.  Il nostro vanto infatti è nel Signore (cf.   1Cor 5 32)

         Godere, per noi nel ministero presbiterale è di esser stati scelti senza alcun merito, e in modo irrevocabile.

         Lo chiarisce papa Francesco  – nella Messa crismale di tre anni fa – : «L’integrità del Dono, alla quale nessuno può togliere né aggiungere nulla, è fonte incessante di gioia: una gioia incorruttibile».

         La nostra gioia trova fonte nella irrevocabilità del Suo dono, della Sua chiamata, del Suo amore.

         La vocazione sacerdotale è un mistero d’amore: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor. 12,9).

         In qualche modo, la nostra gioia non è diminuta dalla  nostra piccolezza, ma da essa è resa ancora più grande, perchè la nostra piccolezza rende evidente la gratuità sovrabbondante del dono di Dio, e dunque la grandezza del Suo Amore.

         Accade questo in Maria, che magnifica il Signore «perchè ha guardato l’umità della sua serva» – non perchè l’ha preservata dal peccato, non perchè l’ha resa specchio di giustizia, modello di virtù: ma perchè ha posato il Suo sguardo sulla sua piccolezza.

         Sia anche per noi questo il vero motivo di orgoglio, la causa della vera gioia: sapere che Dio posa il suo sguardo sulla nostra piccolezza.

         E ci aiuti la Vergine Maria, alla cui cura materna, caro Antonio questa sera ti affidiamo. «Il Padre si compiace – diceva il santo curato d’Ars –  di contemplare il cuore della Santissima Vergine Maria come fosse il capolavoro delle Sue mani».

         Ci aiuti la Madonna a dare al  cuore, al tuo cuore, alla vita  la forma che Dio desidera per noi.

        Amen!

        + Sergio Melillo


[1]cf Papa Francesco, Omelia ordinazione dei presbiteri, Basilica Vaticana 7 maggio 2017.

            [2]  che Pio IX stava per creare cardinale prima della precipitosa fuga a Gaeta.

[3] Nelle sue Lettere a una carmelitana scalza

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