La Pasqua è il passaggio dalla morte alla vita. Non più lutto, lamento ne lacrime per piangere la morte di Cristo. Il suo volto rigato dai dolori del mondo è trasfigurato. Nel Crocifisso Risorto ci è rivelata la Misericordia di Dio. Nell’alba di Pasqua anche il suono grave delle campane riacquista il suo sonoro tintinnio. Le campane hanno il difficile compito, con i loro armoniosi rintocchi, di risvegliare le nostre assopite coscienze, i cuori affranti dei “senza speranza”: delle famiglie senza tutele, dei giovani senza lavoro e futuro, degli anziani senza conforto, della vita sempre più schiava della tecnica… dei migranti senza territori, dei cristiani sempre più perseguitati, di liberarci dalla violenza nel nome di un presunto “dio”. Il legno secco e mortifero della croce è finalmente gemmato come la primavera. Sono due gli elementi su cui riflettere: la pietra e la tomba. In verità, il primo che emerge nella scena della morte e della risurrezione è la pietra che sigilla la tomba di Cristo. Afferma Papa Francesco: «Tutti quei secoli di storia si schiantano e falliscono contro un masso che sembra nessuno possa muovere. Tutte le promesse dei profeti, le illusioni, le speranze si schiantano su un masso».
Ma, nella notte oscura e gelida, nella “selva oscura” intricata dal peccato invece irrompe inattesa l’alba luminosa della Risurrezione! In verità, molti di noi oggi si sentono come i discepoli delusi di Emmaus. Ma, allora come oggi, nella deriva culturale nichilistica, Gesù si fa vicino malgrado i nostri come «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo»(Cfr. Lc 24,16).
Il nostro contesto di antica cristianizzazione necessita, senza altre dilazioni, di una nuova evangelizzazione! I nostri contemporanei appaiono a volte incapaci di intuire la novità che si sprigiona dalla Pasqua. Tertulliano – un cristiano dei primi secoli – afferma : “La carne (la corporeità) è il cardine della salvezza”. Non vi è salvezza se non si riconduce il cammino dell’uomo a Cristo. Gesù a Pasqua ricuce per sempre la lacerazione sanguinante tra l’uomo e Dio. Restituisce la dignità smarrita di Adamo. Cristo rifonda la storia con la Risurrezione. Anche nel non credente deve ridestarsi il desiderio d’amare la vita con le sue stagioni, lo slancio di dare una svolta all’esistenza, uscire dal “vizio assurdo” di un tempo mortifero. Gesù ci anticipa con la sua Grazia, ci precede “in Galilea”, fra la gente, nel quotidiano, negli anfratti del mondo, tra i poveri….. Il Risorto annuncia: “Pace” al mondo senza pace. Il mattino di Pasqua si chiarisce l’interrogativo: “Perché cercate tra i morti il Vivente?”.
E’ una risposta che asciuga le lacrime e disarma i violenti: nonostante gli scenari inquieti della vita la morte è vinta! Con la risurrezione il giorno di Dio irrompe nella storia dominata da una economia esclusivamente di affari. Sempre più incontro persone, famiglie, giovani, operai ed anziani che bussano alle parrocchie e che mi aprono i cuori e mostrano le loro disillusioni.
La Speranza cristiana non è “una uscita di sicurezza” una “spes ultima dea”: richiede impegno delle istituzioni e delle persone. La speranza cristiana ci dice che la risurrezione del Signore illumina il cammino del mondo. Il cristiano è certo della positività della vita: chi crede in Dio che nelle sembianze del Crocifisso si è manifestato come amore “sino alla fine” (Gv 13,1), sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza. Nel Cristo sofferente apprende anche che la bellezza della verità include: offese, dolori e persino l’oscuro mistero della morte. Sant’Agostino nel porre la relazione tra il Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, afferma una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste.
Ma, verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene, di un Dio ricco di Misericordia. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa. Né può bastare il socratico dio Apollo, considerato da Platone il garante dell’imperturbabile bellezza “veramente divina”. Non ci resta che tornare alle “due trombe” della Bibbia, cioè al paradosso di Cristo, del quale si può dire “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo …”, ma anche “Non ha bellezza né apparenza…un volto sfigurato dal dolore”. Nella passione di Cristo, l’estetica greca è del tutto superata.
L’esperienza del bello riceve una nuova profondità. Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, coronare di spine. Ma, proprio in quel volto sfigurato appare l’estrema Bellezza dell’Amore che ama fino in fondo, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità non la menzogna è l’estrema “affermazione” del mondo.
E’ un trucco astuto della menzogna quello di presentarsi come “unica verità”, quasi che aldilà di essa non ne esista alcun’altra. Soltanto il Crocifisso, Volto della Misericordia, è capace di liberarci da quest’inganno prepotente e pervasivo ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell’Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza.
Una lirica di Holderin – a Patmos – svela che “E’ sì difficile ad afferrare è il Dio/Ma dove è il pericolo, cresce/Anche ciò che salva”. E’ una perla preziosa da riporre nello scrigno riconciliato del cuore. In una disperante solitudine si eleva come una vetta aspra che par scoraggiare l’ascesa ma, una quieta brezza, la preghiera, ci dona la presenza di Dio che si staglia quando ogni particolarità o egoismo è caduto.
Abbiamo ben chiaro che tra i riflessi più evidenti della crisi d’oggi sono riconoscibili nella volontà di ridurre la famiglia ad “aggregato di individui”, a “soggetto da ridefinire a seconda delle pressioni di costume”: una realtà che si vorrebbe dai “confini precari” e dai “tempi incerti”, dimenticando come essa è “l’unico luogo degno” dell’accoglienza della vita. Essa costituisce un valore, un punto di forza. Di qui la richiesta alle istituzioni di sostenerla con iniziative concrete e, in parallelo, di tutelare il valore antropologico della domenica, giorno della festa e del riposo: calpestarlo per illusorie ragioni economiche contribuisce a rendere meno coesa la collettività.
La Pasqua che fonda la Chiesa, il Corpo di Cristo, il Popolo di Dio e fa fiorire come una “vita nuova” per tutta l’umanità. Impregna la storia del magis della redenzione che Cristo dona a tutti.
Il legame di questo evento alla Speranza la colgo anche nelle pagine del “Curato di campagna” di Georges Bernanos, dove la nota dominante dell’esistenza è espressa nelle ultime parole dello stesso curato: “Che cosa importa tutto è Grazia!”. Infatti, la Grazia è Misericordia che riscatta e schiude l’eterno anche quanto tutto è velato dall’ombra del peccato.
Sulla scena del teodramma del triduo pasquale si staglia discreta la Madre di Gesù, Maria: presenza silente, dolente e amorevole che accompagna il Figlio, l’umanità e che impietrita nel dolore trafigge il cuore.
† Sergio Melillo, vescovo